Costruire o distruggere?
Un fattore importante nel valutare il comportamento delle persone.
Comprendere e valutare il comportamento delle persone è ovviamente molto difficile. Poche sono quelle totalmente trasparenti, “radicalmente candide”, come dicevo in un precedente post. Per questo spesso dobbiamo ricorrere a indicatori più o meno indiretti che, in qualche modo, ci aiutino a valutare chi abbiamo di fronte.
Un indicatore che uso spesso valuta l’attitudine di una persona rispetto a una dicotomia molto semplice: il suo comportamento è volto a costruire o a distruggere?
Sembra quasi una banalità e forse lo è. Ma col tempo ho imparato che un elemento essenziale per capire il valore di una persona è la sua capacità di costruire qualcosa di nuovo e utile, di contribuire in modo positivo ad una discussione, di arricchire chi ha di fronte. Se una persona è solo capace di distruggere, criticare in modo sterile, accodarsi al “vento che tira” per ignavia o opportunismo, di certo genera in me una reazione negativa. Direte “ovviamente”. Beh, non mi pare così scontato, n’est-ce pas?
Come mi faceva notare un lettore del blog, a volte, in realtà, per costruire bisogna prima anche distruggere. Diceva il Maestro Yoda ne L’impero colpisce ancora: “Devi disimparare ciò che hai imparato.” È così, ovviamente. Il punto essenziale è l’intenzione che anima una persona: chi distrugge per ricostruire ha un intento positivo, costruttivo per l’appunto. Chi, invece, è solo capace di cancellare, annullare o eliminare quel che hanno fatto altri, senza essere in grado di proporre o costruire un’alternativa, rappresenta un danno e un pericolo per la comunità in cui vive, anche quando alcune delle sue critiche fossero fondate e ragionevoli.
Non ci vuol nulla a distruggere.
La vera sfida è costruire qualcosa di migliore e utile.
Come in altri commenti che ho proposto, in qualche modo questo ragionamento è legato anche al concetto di errore. Sbagliare è umano ed è indipendente dal fatto che la persona abbia un intento costruttivo o distruttivo. Si può sbagliare anche cercando di costruire, magari distruggendo qualcosa proprio a causa dell’errore commesso. Ma questo è parte della vita e della nostra fallibilità, come esseri umani e imperfetti.
Molte teorie moderne del management sostengono che bisogna saper accettare l’errore e usarlo per imparare e crescere. In realtà, a questa dichiarazione di principi spesso segue la più classica e ipocrita delle reazioni: la condanna dell’errore, senza se né ma. Un contesto sociale o professionale sano deve tollerare l’errore, “l’errore nuovo”, non ripetuto, come suole ripetere lo chef Davide Oldani, utilizzandolo per crescere, per costruire o ricostruire il risultato atteso.
Una delle vere differenze che qualificano una persona non è l’infallibilità, ma la sua capacità di ricercare sempre, con tenacia e onestà intellettuale, occasioni di crescita, nonché lo sforzo continuo di costruire “cose nuove” e di offrire valore alla comunità nella quale è chiamato a vivere e operare.




Creare un ambiente in cui le persone si sentano libere di sbagliare é l’unico modo per incoraggiarle a prendersi dei rischi ed innovare. Se la cultura punisce l’errore, nessuno farà più del minimo necessario. É la lezione più importante che ho imparato in oltre 10 anni di gestione di team di ricerca e sviluppo. Ho riletto recentemente Empowered di Marty Cagan in cui l’autore porta numerosi esempi e ogni volta che ci penso ritrovo decine di situazioni vissute negli ultimi anni che rinforzano questa convinzione.
L’atteggiamento di critica a posteriori di ogni sbaglio è distruttivo, soprattutto se non è accompagnato da una proposta costrittiva.